Fitwashing: il benessere è solo marketing
Tutti conosciamo ormai bene il concetto di greenwashing. Meno popolare è la sua versione “salutista”: il fitwashing. Il fitwashing è una strategia di marketing che usa (a sproposito) parole come wellness, fit, light (o leggero), healthy (o sano/salutare) e simili al fine di vendere prodotti, servizi e stili di vita che di salutare hanno ben poco. Eppure, nonostante sia una truffa palese, riesce a ingannare anche persone ben informate, perché gioca su leve psicologiche profonde: sensi di colpa, desiderio di appartenenza, paura del giudizio, bisogno di controllo.
Il fitwashing è una menzogna ben vestita.
Perciò ho sentito un forte bisogno di scrivere questo articolo, che spero possa aiutarti a comprendere perché questa tendenza è dannosa per la salute fisica e mentale, e come riconoscerla per non cadere nella trappola.
Il fitwashing è ubiquitario.
Lo si trova negli scaffali dei supermercati, con sempre più prodotti travestiti da “fonte di fibre” o “ricchi di proteine” quando in realtà la loro alternativa “tradizionale” ha dei valori nutrizionali estremamente simili. Prendiamo, ad esempio, molte delle barrette o creme spalmabili “proteiche”: alla fine, la differenza con le versioni classiche è quasi nulla, se non nei costi e nel marketing. Nei pochi casi in cui la differenza è reale la domanda che mi sorge spontanea è: chi ha bisogno di tutte queste proteine? Tuttavia questo è un argomento per un altro articolo di blog.
Lo si trova nelle palestre, nei centri benessere e sui social, dove “influencer” in abbigliamento sportivo sponsorizzano prodotti e servizi che promettono risultati rapidi, spesso a scapito dell’equilibrio e della sostenibilità a lungo termine. Questi elementi spuntano come funghi soprattutto in periodi come questo, ovvero poco dopo un periodo di festività (oppure prima dell’estate), talvolta invitando apertamente le persone a provare sensi di colpa, sperando così di riuscire a vendere più facilmente.
Il fitwashing è arrivato perfino nei bar e nei ristoranti: soprattutto in città, non è difficile trovare nei menù proposte contenenti le parole fit, power o detox. Il bello è che molto spesso, nonostante il nome, il piatto o lo snack che ci viene venduto è squilibrato o semplicemente privo di alcun senso nutrizionale.
Il fitwashing ha superato il limite, scivolando nel grottesco.
Integratori inutili, trattamenti pseudoscientifici, gadget costosi, esperienze “mindfulness” svuotate di ogni significato (e lo scrive uno che ha praticato questa tipologia di meditazione per anni): l’ossessione per il fit ha partorito i suoi mostri.
Il mio intento è comunicare che tutto ciò che promette benessere veloce, forma perfetta senza sforzo e altre simili formule magiche merita sospetto. Perché il vero benessere, come i lettori di questo blog ormai sanno, è un processo lento, difficile, che richiede tempo, errori, consapevolezza, intenzionalità. Non è un acquisto. Non è una tendenza. Non è uno slogan.
Il fitwashing sfrutta la scienza, mortificandola.
Le aziende (e i loro testimonial) amano usare termini appartenenti al gergo scientifico per sembrare credibili. Indossano un camice bianco e si riempiono la bocca di “metabolismo attivo”, “picco glicemico”, “ritenzione idrica”, “infiammazione silente”, “autofagia”, “stress ossidativo”. Quasi sempre lo fanno senza alcun rigore, senza citare fonti (o al massimo citando qualche studio scelto casualmente e non valido per sostenere le proprie affermazioni: la cosiddetta “stolen science”), senza contestualizzare. Sono gusci vuoti, eppure funzionano: danno quell’apparenza di autorevolezza che ci convince a comprare. Manipolano il nostro desiderio di salute.
Ancora prima di essere economico, il danno del fitwashing è culturale.
Il concetto di “salute” e quello di “fitness” negli ultimi anni stanno acquisendo delle derive perverse. La dieta sana non è un prodotto, non si misura in “macro”, non è ottimizzabile. La dieta sana è uno stile di vita, e in quanto tale non sarà mai perfetta, né ottimale. Lo stesso vale per il fitness. “Fitness” non è la circonferenza di un braccio o di una gamba. Non è neanche una percentuale di massa grassa. Il vero “fitness” è la libertà di movimento senza dolori e senza fastidi, l’abilità di spostare oggetti moderatamente pesanti in sicurezza, la destrezza in determinati movimenti complessi, la capacità di nuotare, andare in bici o correre con discreta abilità.
Mi piace pensare che il fitness sia anche mangiare fuori, uscire la sera o andare in viaggio o in vacanza senza l’ossessione di dover mangiare o di doversi muovere in un determinato modo.
Il fitwashing riduce il corpo a un progetto estetico da perfezionare e la mente a un muscolo da disciplinare. In realtà il corpo è un sistema complesso e in molti modi esente dal nostro controllo o dalla nostra volontà, e la mente un alleato da conoscere e accogliere. Ridurre tutto ciò in numeri è una forma sottile ma potente di violenza psicologica.
A proposito di mente: il fitwashing alimenta ansia, ossessioni e disturbi alimentari.
La costante pressione all’automiglioramento, l’idea di dover “lavorare su di sé”, il confronto continuo con modelli inarrivabili: tutto ciò crea terreno fertile per il perfezionismo patologico, il body checking compulsivo, l’ortoressia, il binge-eating. Chi di noi è più sensibile e vulnerabile rischia di caderci dentro senza nemmeno accorgersene. Proprio perché il fitwashing si presenta come la cura.
Quindi, che fare?
Informarsi. Diffidare dagli slogan. Domandarsi sempre “A chi conviene questo messaggio?”. Tornare a un’idea più semplice (e accurata) di fitness e salute: un’alimentazione varia, ricca di frutta e verdura, la giusta attività fisica, il sonno, le relazioni.
Il benessere vero è un equilibrio che non si misura con numeri, ma con la qualità di vita che riusciamo a costruire giorno dopo giorno.
E soprattutto, accettare che la salute non è perfezione, ma equilibrio. Non è controllo, ma ascolto. Non è somigliare a qualcuno, ma prendersi cura di sé nel rispetto della propria unicità.
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A presto,
Matteo